di Beatrice Silenzi

È il 1990, quando Martin Scorsese regala al pubblico uno dei suoi capolavori più celebri “Quei bravi ragazzi”.
Il film, basato sul romanzo di Nicholas Pileggi, racconta la storia di Henry Hill, giovane americano di origini italo-irlandesi che fa carriera nella mafia newyorchese degli anni ’50.

La pellicola è un viaggio affascinante nel mondo criminale, con uno sguardo realistico sulla vita dei gangster di mafia. 
Il cast è eccezionale: Ray Liotta, Robert De Niro e Joe Pesci offrono agli spettatori interpretazioni indimenticabili, ma è la regia di Scorsese a dar vita a un universo oscuro quanto pericoloso.

Con grande maestria e capacità di creare tensione e suspense, Scorsese trascina il pubblico nelle viscere di una realtà violenta, senza scrupoli.
Le sue scelte – come l’uso della voce fuori campo o la struttura narrativa non lineare – contribuiscono a rendere “Quei bravi ragazzi” un film unico, complesso che va oltre gli stereotipi ma mostra fragilità e contraddizioni dei personaggi.

È molto più di un semplice film di gangster. È un’opera che ci invita a riflettere sul tema dell’identità, sulle scelte che determinano il nostro destino, sulla moralità, sulla corruzione, sulla famiglia e sull’amicizia, sulla lealtà e sulla vendetta.