Nell’ambito del cinema mondiale, il nome di Dario Argento evoca un universo riconoscibile e inquietante, dove l’estetica dell’orrore si trasforma in un linguaggio poetico e visionario.
Regista, sceneggiatore e talvolta produttore, Argento ha saputo reinventare il thriller e l’horror con una cifra stilistica unica, fondendo la tensione psicologica con una straordinaria cura per la forma visiva e sonora.
La sua filmografia, che attraversa oltre cinque decenni, è una continua esplorazione dell’oscurità: non solo quella che abita le strade notturne di Roma o Torino, ma soprattutto quella che si annida nella mente umana.
Figlio d’arte — la madre, Elda Luxardo, era una fotografa, e il padre Salvatore un produttore cinematografico — Dario Argento nasce a Roma nel 1940.
Dopo un’esperienza come critico cinematografico e sceneggiatore (collabora, tra gli altri, con Sergio Leone per C’era una volta il West), debutta alla regia nel 1970 con “L’uccello dalle piume di cristallo”, opera che segna l’inizio della cosiddetta “trilogia degli animali” (Il gatto a nove code, 4 mosche di velluto grigio).
Questi film, che risentono del giallo italiano e dal cinema hitchcockiano, definiscono subito i tratti del suo stile: inquadrature soggettive, montaggio nervoso, uso espressionista del colore, colonna sonora incalzante e un’attenzione maniacale al dettaglio visivo.
Argento non si limita a narrare un mistero: lo trasfigura in una esperienza sensoriale e onirica, dove l’assassino non è mai solo un personaggio, ma la proiezione di un trauma, di un desiderio represso o di una follia latente.
Con “Profondo Rosso” (1975) Argento raggiunge la piena maturità artistica. Il film, con protagonista David Hemmings, è un vertice del giallo italiano: la trama intricata e labirintica, l’estetica ipnotica e la colonna sonora dei Goblin creano un’opera di culto che unisce suspense e surrealismo. “Profondo Rosso” è anche un film sulla percezione e sulla memoria: l’orrore nasce da ciò che l’occhio non ha saputo vedere, da un dettaglio sfuggito che si imprime nell’inconscio.
Pochi anni dopo, con “Suspiria” (1977), Argento varca definitivamente la soglia del fantastico. Ambientato in una scuola di danza che nasconde una congrega di streghe, il film abbandona la logica razionale del giallo per immergersi in un mondo magico e perturbante, dominato da colori saturi, luci irreali e suoni ossessivi. “Suspiria” segna una svolta nel cinema horror mondiale: è un’esperienza visiva totale, una sinfonia di immagini e suoni dove la trama diventa secondaria rispetto alla potenza evocativa.
Questo approccio continuerà con “Inferno” (1980) e “La terza madre” (2007), che completano la trilogia delle Tre Madri (Mater Suspiriorum, Mater Tenebrarum, Mater Lachrymarum), un affresco esoterico in cui Argento fonde mitologia, occultismo e psicologia junghiana.
In Argento, il corpo umano è sempre protagonista e vittima. Le sue mutilazioni, i suoi sguardi, i suoi gesti diventano simboli di un linguaggio visivo erotico e sacrale. Le scene di violenza, spesso coreografiche e stilizzate, non sono meri esercizi di sadismo, ma rappresentano un’estetizzazione della morte, una ricerca della bellezza nell’orrore.
Lo spettatore, chiamato a identificarsi con la soggettiva dell’assassino, vive un’esperienza di inquietante partecipazione: l’atto omicida diventa un atto estetico, un momento di rivelazione dell’inconscio.
Non a caso, la critica ha spesso accostato Argento al surrealismo e all’espressionismo tedesco, mentre la musica è un personaggio a sé.
Le collaborazioni con Ennio Morricone prima e con i Goblin poi hanno generato alcune delle colonne sonore più iconiche del cinema horror.
Anche il colore ha una funzione narrativa. In “Suspiria” il rosso domina, simboleggiando il sangue e la magia; in “Inferno” prevalgono il blu e il giallo, tonalità fredde che evocano la dissoluzione e la follia.
Le architetture, spesso barocche o razionaliste, diventano labirinti mentali: non semplici spazi scenici, ma specchi dell’inconscio.
Sotto la superficie estetica, il cinema di Argento è un viaggio psicologico profondo. Le sue storie ruotano attorno a traumi rimossi, visioni distorte, identità frantumate.
In questo senso, Argento si colloca idealmente tra Freud e Jung: da un lato, indaga il ritorno del rimosso; dall’altro, esplora gli archetipi e i simboli universali. Le sue streghe, le madri oscure, le donne minacciose o vulnerabili sono figure dell’inconscio collettivo, rappresentazioni del potere e della paura femminile.
Registi come Guillermo del Toro, Nicolas Winding Refn, Gaspar Noé, ma anche autori di horror moderni come Ari Aster o Robert Eggers, hanno riconosciuto il debito nei confronti dell’estetica argentiniana.
Il suo cinema ha aperto la strada a una nuova concezione dell’horror come esperienza estetica e filosofica, non semplice intrattenimento.





