di Beatrice Silenzi

Quando nel 1977 uscì Annie Hall (Io e Annie nella versione italiana), il cinema americano stava vivendo una fase di grandi trasformazioni.
Era l’epoca della “New Hollywood”, che aveva già regalato film come Il padrino, Taxi Driver e Qualcuno volò sul nido del cuculo.
In questo scenario dominato da storie drammatiche e personaggi tormentati, Woody Allen riuscì a imporre un nuovo linguaggio: una commedia sofisticata, autoironica, al tempo stesso divertente e profondamente malinconica.

Io e Annie non è solo una storia d’amore finita male, ma un ritratto esistenziale della fragilità dei rapporti e dell’insicurezza dell’uomo contemporaneo.
È un film che ha segnato un’epoca, rivoluzionando il modo di intendere la commedia romantica e imponendo Allen come autore completo, capace di unire leggerezza e profondità filosofica.

Il protagonista è Alvy Singer (Woody Allen), comico newyorkese brillante ma nevrotico, che rievoca la sua relazione con Annie Hall (Diane Keaton), donna eccentrica, ingenua e affascinante, con la quale ha vissuto una storia d’amore intensa e complicata.

Il film è strutturato come un flusso di coscienza: Alvy parla direttamente allo spettatore, rompe la quarta parete, ricorda episodi della sua infanzia, rievoca conversazioni e momenti intimi.
Non c’è linearità, ma frammenti di memoria, perché le relazioni – sembra suggerire Allen – non si raccontano in maniera ordinata, ma come mosaici di istanti.

La loro storia segue l’arco classico: l’incontro, la passione, le incomprensioni, la separazione. Ma Allen la trasforma in un’occasione per riflettere sul senso dell’amore, sulle difficoltà della comunicazione, sull’impossibilità di mantenere intatta la magia del rapporto.

Se Woody Allen porta sullo schermo la sua immagine di intellettuale nevrotico, è Diane Keaton a incarnare il cuore emotivo del film.
Annie Hall è un personaggio che ha fatto epoca: spontanea, originale, ironica, apparentemente disordinata ma dotata di un fascino irresistibile.

Il suo stile, fatto di giacche maschili, cravatte larghe, pantaloni morbidi e cappelli, lanciò una vera e propria moda negli anni ’70, ancora oggi citata come simbolo di femminilità anticonvenzionale. Ma al di là dell’abbigliamento, Annie rappresenta una nuova figura di donna sul grande schermo: indipendente, libera, capace di sfuggire agli schemi tradizionali.

Non sorprende che Keaton vinse l’Oscar come miglior attrice protagonista: la sua Annie resta uno dei ritratti femminili più memorabili della commedia americana.

Io e Annie rivoluzionò il genere romantico non solo nei contenuti, ma anche nella forma.
Allen spezzò la narrazione tradizionale con inserti visionari e surreali: Alvy bambino che discute di filosofia, i sottotitoli che svelano i veri pensieri dei personaggi, il dialogo con il filosofo Marshall McLuhan in fila al cinema, o la scena animata in stile Biancaneve.

Uno degli aspetti più affascinanti del film è la sua visione dell’amore: non racconta una storia “a lieto fine”, la relazione tra Alvy e Annie finisce, nonostante i sentimenti, nonostante i ricordi, nonostante la nostalgia.
Allen suggerisce che l’amore non sia destinato a durare per sempre, ma che abbia un valore proprio per ciò che lascia dentro di noi.

Come dice il protagonista nel finale, citando una battuta rimasta celebre: “Abbiamo bisogno delle uova”. In altre parole, anche se le relazioni sono irrazionali, complicate e dolorose, continuiamo a cercarle, perché senza di esse la vita sarebbe vuota.

Io e Annie fu un trionfo.
Vinse quattro premi Oscar: miglior film, miglior regia (Woody Allen), miglior sceneggiatura originale (Allen e Marshall Brickman) e miglior attrice protagonista (Diane Keaton).
Batté persino Star Wars, uscito nello stesso anno, a dimostrazione di quanto la critica e l’Academy avessero colto la portata innovativa dell’opera.