Era il 1985, quando Ritorno al futuro (Back to the Future) di Robert Zemeckis approdava nelle sale cinematografiche ed il mondo non si rese immediatamente conto che stava assistendo alla nascita di un mito. Il film – prodotto da Steven Spielberg – non era solo una commedia di fantascienza perfettamente costruita, ma un racconto sul rapporto tra passato, presente e futuro, sui meccanismi della memoria collettiva e sui sogni (e le illusioni) dell’America di fine Novecento.
La trama, ormai entrata nell’immaginario comune, è semplice e geniale: Marty McFly, adolescente californiano con la passione per la musica rock, resta intrappolato nel 1955 dopo che l’amico scienziato, il bizzarro Doc Brown, lo spedisce accidentalmente indietro nel tempo a bordo di una DeLorean trasformata in macchina del tempo. Per tornare al suo presente, Marty dovrà fare in modo che i suoi genitori adolescenti si innamorino, salvando così la propria esistenza.
Sembra un pretesto per gag e paradossi temporali – e in parte lo è – ma dietro la struttura narrativa impeccabile si nasconde una riflessione più profonda.
Zemeckis utilizza il viaggio nel tempo come dispositivo simbolico per interrogarsi sul destino e sull’identità, sul desiderio umano di cambiare il passato e riscrivere la propria storia.
Marty rappresenta il figlio che torna a “vedere” i genitori non come figure autoritarie o distanti, ma come esseri fragili, pieni di paure e sogni, costretti a lottare contro le stesse insicurezze che affliggono lui ed il tempo non è un semplice continuum fisico, ma una dimensione morale e culturale.
Il 1955 in cui approda Marty è un’America idealizzata: ordinata, ingenua, piena di promesse e rock’n’roll nascente. È l’epoca dei diner, dei juke-box, delle auto cromate e dell’ottimismo postbellico. Ma lo spettatore degli anni ’80 sa che quella visione è una costruzione nostalgica: il 1955 che vediamo è quello filtrato dallo sguardo di chi, nel 1985, ne rimpiange la semplicità perduta.
Zemeckis gioca dunque su due livelli temporali: il passato come mito e il presente come disincanto: il 1985, con le sue famiglie disfunzionali, i centri commerciali impersonali e la musica sintetizzata, rappresenta un’America in crisi d’identità, che guarda al proprio passato con un misto di nostalgia e ironia.
Pochi oggetti cinematografici sono diventati iconici quanto la DeLorean DMC-12, la macchina del tempo più celebre della storia del cinema. Portiere ad ali di gabbiano e corpo d’acciaio, rappresenta la fusione tra il sogno tecnologico e la fantasia adolescenziale.
La scelta di una vettura reale, nata come simbolo del fallimento industriale (la DeLorean fu un flop commerciale negli anni ’80), è ironica e rivelatrice. Zemeckis e Gale la trasformano in un emblema di libertà e ingegno, redimendo così un simbolo dell’insuccesso capitalistico.
Michael J. Fox, allora star della serie Casa Keaton, incarna un nuovo tipo di eroe americano: spontaneo, ironico, ribelle ma profondamente umano. Marty non è un genio, non è un superuomo: è un adolescente che impara a conoscersi attraverso il contatto con le origini della propria famiglia.
Il suo viaggio non è soltanto temporale, ma identitario: è un racconto di formazione mascherato da commedia fantascientifica.
Christopher Lloyd dà una delle interpretazioni più memorabili della storia del cinema. Il suo Emmett “Doc” Brown è un moderno Prometeo, un visionario che sfida le leggi della fisica per portare l’uomo oltre i limiti del tempo. Ma, a differenza dello scienziato folle tradizionale, Doc non è un uomo divorato dall’ambizione: è un idealista, un sognatore con il cuore di un bambino.
La sua amicizia con Marty – tanto improbabile quanto autentica – rappresenta l’incontro tra due epoche: la curiosità ingenua della gioventù e la saggezza eccentrica della vecchiaia. In un mondo che separa generazioni, Ritorno al futuro celebra invece la collaborazione e il dialogo, suggerendo che il progresso nasce sempre dall’unione tra esperienza e audacia.
Ogni scena, ogni battuta, ogni dettaglio ha una funzione precisa e ritorna trasformato nel finale. Zemeckis costruisce un film che gioca magistralmente con il concetto di causa-effetto, mantenendo un ritmo impeccabile tra commedia, tensione e sentimento.
Il montaggio di Arthur Schmidt, la colonna sonora di Alan Silvestri e le canzoni di Huey Lewis and the News contribuiscono a un equilibrio raro tra ironia e emozione.
La celebre sequenza del “Johnny B. Goode” – in cui Marty anticipa il rock’n’roll davanti a un pubblico del 1955 – è un piccolo capolavoro di metacinema: un paradosso temporale che racchiude tutto lo spirito del film, dove il futuro inventa il passato.
Il messaggio finale non è tanto che si possa cambiare il passato, quanto che si può imparare da esso per costruire un futuro migliore.





